Senza l’integrazione bancaria l’integrazione del mercato europeo è incompleta
Unicredit ha deciso di aumentare la percentuale di partecipazione in Commerzbank, chiedendo quindi l’autorizzazione alla Commissione europea di procedere all’acquisto di una quota azionaria che se inizialmente si attestava il 10%, adesso la richiesta è il 29,9% (Unicredit diverrebbe il primo azionista nella fusione). Una mossa che ha lasciato perplessa la cancelleria tedesca, con il cancellerie Olaf Scholz che non le ha mandate a dire: “lo stile dell’approccio di Unicredit ha sconvolto molti azioni in Germania ed è per questo che il governo tedesco ha deciso di non vendere ulteriori azioni”. Eppure, l’interesse del governo tedesco a privatizzare l’istituto finanziario pubblico Commerzbank c’è eccome, visto che proprio il ministro tedesco dell’economia Christian Linder (con una posizione di certo più accomodante e di apertura rispetto a Scholz) ha replicato che c’è tutto l’interesse del governo federale tedesco a cedere le proprie quote azionarie: “Il governo federale ha sempre chiarito che Commerzbank deve essere privatizzata. Ci sono ragioni di politica pubblica per questo: lo Stato non può essere azionista di un’istituzione competitiva a lungo”. La partita è ancora tutta da giocare. Le ostilità del governo tedesco nascerebbero dal fatto che Unicredit ha come principali azionisti fondi inglesi e americani, pur essendo un istituto di credito italiano. Ma la sostanza è un’altra: la complessa trattativa Commerzbank – Unicredit è l’ennesima riprova del disinteresse della politica europea di creare un sistema finanziario integrato su scala europea.
Il caso ripropone all’Europa una vecchia questione: adottare un sistema bancario su base continentale in grado di sviluppare un tessuto economico capace di fare innovazione, oppure preservare un sistema fatto di “feudi nazionali” garanti di un sistema economico ridotto ma indipendente. Alla fine, all’unanimità di tutti i paesi, l’Europa ha scelto il secondo modello. Proprio perché sulla lentezza (o forse contrarietà) dei processi d’integrazione europei una nazione non può fare da capro espiatorio, anche l’Italia ha le sue dosi di responsabilità: lasciare in sospeso la ratifica della modifica del trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità (il MES sta assumendo la configurazione da fondo salva-gente europeo di risoluzione bancaria) non garantisce di certo una posizione di credito sul tema. È dalla crisi del 2008-2009 e dei debiti sovrani che l’Europa ha intrapreso un percorso di unificazione bancaria: dalla dotazione di un sistema di vigilanza unico europeo (MVU) o dalla messa a punto di un sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF). Sono stati passi certamente incoraggianti che hanno dato risposte concrete per la stabilità finanziaria dell’Europa, ma mancano all’appello altri strumenti come, per esempio, un sistema di assicurazione in solido dei depositi bancari. Ne consegue che senza una stratificata e complessa rete finanziaria l’integrazione dei mercati europei è parziale, riducendone la loro capacità produttiva.
La difficile trattativa di fusione non può che riportarci al rapporto sulla competitività pubblicato da Draghi due settimane fa, dove l’ex governatore della BCE avverte che la frammentazione del sistema bancario europeo impedisce agli istituti di credito di finanziare investimenti importanti, specialmente nei settori tecnologici dove l’Europa è assente in termini di competitività globale. Nel suo rapporto Draghi promuove una sinergia infrastrutturale tecnologica ed economica che percorra, integri, tutta l’Europa; ma un percorso tanto ambizioso quanto necessario diventa utopico se la politica europea preserva l’autonomia bancaria. C’è il timore di essere davanti all’ennesimo buon auspicio che non trova seguito.